L’ulivo nella mitologia
Simbolo di sacralità e di pace (la colomba biblica tornò da Noè con un ramo di ulivo nel becco per annunciare il ritiro delle acque dalla terra), l’olivo ha accompagnato la storia dell’uomo dagli albori della civiltà fino ai nostri giorni.
Secondo la mitologia, Atene, capitale dell’Ellade, cuore, centro propulsore intellettuale e politico della civiltà greca, è intimamente legata al suo nume tutelare, alla Glaucopide, dea dagli occhi brillanti come le foglie grigio-verde-argento degli ulivi, ritenuti sostanza di luce e simbolo di sapienza. Per aggiudicarsi il possesso protezione su Atene gareggiarono Poseidone, dio del mare, e Atena, figlia di Zeus, dea della saggezza. Poseidone colpì con il suo tridente la roccia (su cui successivamente sarebbe sorta l’Acropoli) e da questa fece venir fuori una fonte d’acqua marina ed un cavallo più veloce del vento. Atena piantò il primo ulivo, albero che, per millenni, con i suoi frutti avrebbe dato un succo meraviglioso che gli uomini avrebbero potuto usare per la preparazione dei cibi, per la cura del corpo, per la guarigione delle ferite e delle malattie e quale fonte di luce per le abitazioni.
Fu assegnata ad Atena la palma della vittoria e così la dea, dagli occhi glauchi, divenne la padrona della città che da lei prese il nome e che in suo onore edificò il Partenone.
L’ulivo nell’Antica Grecia
Solone (640-561 a.C.), poeta, legislatore e arconte (uno dei nove capi ateniesi) fece piantare un secondo gruppo di ulivi e fu famoso, nella legislatura del 594, per aver promosso l’olivicoltura ponendola sotto la protezione di Zeus. Una ennesima leggenda vuole che Alliroto, figlio di Poseidone, al fine di vendicare la sconfitta paterna, avrebbe tentato di abbattere questi alberi con un’ascia che gli sarebbe sfuggita e lo avrebbe ucciso. Secondo un’altra versione Alliroto sarebbe stato colpito dal fulmine di Zeus.
Nella norma emanata da Solone, valida per tutta l’Attica, veniva vietato l’abbattimento di ulivi. In caso di estrema necessità e per la costruzione di aree votive, il numero di alberi da abbattere non doveva superare le due unità all’anno. Anche in una orazione di Lisia troviamo cenni a leggi sulla protezione dell’ olivo.
Sotto l’egida di Atena, ed in suo onore, si svolgevano, a partire dal 556 a.C. il 16 del mese di Ecatombeone (luglio-agosto), le piccole (annuali) e grandi (quadriennali) Panatenee a Atene. I vincitori venivano premiati con denaro, medaglie d’oro e d’argento ed anche olio d’oliva in vasi riccamente ornati. L’olio veniva ricavato dai frutti dell’uliveto che Solone aveva fatto piantare.
La capacità delle anfore panatenaiche era di 22-39 litri, il premio consisteva in una quantità di olio che andava da 1000 a 2000 litri ottenuto dai frutti degli ulivi sacri ateniesi. L’olio di oliva ebbe un ruolo importante anche nello sport. I giovani atleti che frequentavano le palestre, i ginnasi ed i bagni, numerosi in tutte le città, venivano massaggiati con olio. Alcuni funzionari erano incaricati di distribuire l’olio nei centri sportivi in Grecia e, solitamente, la cassa comunale pagava le spese. I cittadini greci ricchi, ed in seguito anche i romani, si facevano notare in particolari occasioni quali feste e giochi, facendo donazioni. Per le Panatanee, ad esempio, era la città di Atene che donava l’olio dal bosco sacro; a Roma invece, i capi cittadini non sottovalutavano quest’occasione politica per mettersi in mostra. Queste donazioni di olio furono intraprese a Roma da Giulio Cesare e Nerone fino agli ultimi imperatori. Conseguenza di tutto ciò fu un aumento considerevole del traffico di olio, che portò a incette ufficiali di olio d’oliva da parte dello stato.
L’ulivo nel bacino del Mediterraneo
In paesi come la Palestina, Siria e Creta, luoghi di origine delle più antiche civiltà, si sviluppò la prima olivicoltura.
I re David e Salomone dettero eccezionale importanza agli ulivi nell’economia di Israele. Il primo pose addirittura a guardia di piantagioni e depositi funzionari regi, il secondo pagò i carpentieri di Tiro, che avevano lavorato al Tempio di Gerusalemme, con 20.000 bath di olio (1 bath=22 lt). Gomito a gomito con gli Ebrei, lungo la fascia costiera, tra Egitto e Palestina, vivevano i Filistei (da loro viene il nome di Palestina) che produssero olio per l’illuminazione e i balsami che erano esportati anche nelle terre del Nilo.
Negli anni 1981- 82-84 una campagna archeologica israelo-americana, guidata da David Eitham, scoprì a Tel Mique Akron, non lontano da Tel Aviv, un enorme impianto per la lavorazione delle olive con quasi 100 presse e macine progettate dai Filistei. In questa centrale venivano macerate le olive mediante pietre tondeggianti, mentre sulle due laterali, venivano accatastati fiscoli riempiti di pasta oleosa e, successivamente pressati da travi-torchio incastrate nella parete. La fabbrica filistea (1000 a.C.circa) di Tel Mique Akron può essere considerata uno dei più eccezionali complessi industriali dell’antichità, essendo stata calcolata una produzione annua di circa 1000-2000 tonnellate.
Qui pare si sia diffuso l’olivo proveniente dalla vicina area armena e ne è già documentata la coltivazione a Creta in età minoica (3000-1500 a.c.).
Gran parte delle tavole della cosiddetta stanza delle basi delle colonne a Cnosso ci mostra un vero e proprio libro di conti dell’amministrazione del palazzo fra l’altro con nomi di luoghi di produzione e destinazione di olio.
L’ulivo si diffuse nel Mediterraneo da oriente ad occidente. Tale diffusione avvenne in più fasi. La prima, e la più nota, coincide con il periodo che va dal 5000 al 1400 a.C., raggiungendo l’apice dopo il 2000 a.C. quando l’ulivo da Creta si propaga in Siria, Palestina, Israele. Le relazioni commerciali e l’applicazione del “know-how” nell’olivicoltura portarono a nuovi territori da sfruttare con modeste aree nell’odierna Turchia meridionale, Cipro ed Egitto. Intorno al 1500 a.C. inizia la seconda fase che comporta la diffusione in tutta la Grecia e nelle sue isole, tranne Micene ove questa diffusione si fermò intorno al 1100 a.C..
Nei due successivi millenni sono i Fenici, con le loro navi veloci a far da tramite tra i popoli rivieraschi, diffondendo conoscenza, coltura e usi alimentari; e così, a partire dal IX sec. a.C. la pianta è largamente coltivata in Grecia e a Cartagine. Da qui alle coste della Sicilia e della Spagna il viaggio è breve. Tra il VI e il IV sec. a.c. la coltivazione dell’olivo è diffusa, proveniente dalle colonie siciliane della Magna Grecia, nell’area centrale della penisola italica.
Anche le colonie greche furono investite dalla diffusione dell’ulivo a partire dall’ VIII sec. a.C. quando i Greci cominciarono ad espandersi nel Mediterraneo e a fondare colonie in Sicilia nell’Africa settentrionale e nella Francia del sud. I Romani appresero ad usare l’olio d’oliva come unguento e cominciarono a fabbricare balsami ed oli profumati con gli appositi recipienti, che venivano fabbricati a Cuma, Taranto, Reggio Calabria, Siracusa, Messina e Marsiglia. Con gli unguenti si curavano ferite sanguinanti, si alleviava il prurito, si lenivano le punture delle ortiche, si dava sollievo nelle ustioni e nelle lacerazioni della pelle, si facevano i massaggi contro il mal di testa.
L’ulivo e l’olio nell’Antica Roma
Durante la stagione invernale una dotazione di olio veniva distribuita ai soldati che si proteggevano dal freddo ungendosi. Narra lo storico Polibio che la battaglia sul fiume Tebbia (218 a.C.) fu vinta dai Cartaginesi contro i Romani, perché gli africani prima dello scontro che si svolse in una rigidissima giornata invernale, si erano protetti con l’olio e i romani, che ancora non conoscevano questa tecnica, non lo avevano fatto; sicché quando questi si trovarono a combattere in mezzo alle acque gelide del fiume con gli arti rattrappiti dal freddo, non riuscirono nemmeno a maneggiare le armi. Presso gli antichi popoli italici l’olivo simboleggiava la fertilità dell’uomo e della terra e anche a Roma era venerata come pianta sacra. È abbastanza facile comprendere perché questa pianta abbia attraversato i secoli rivestita di un’aura di sacralità: l’olio non solo serviva come condimento ma la sua morchia bruciata era ricco concime, gli oli più pesanti davano luce alle lampade, mentre il suo legno prezioso poteva essere bruciato solo sull’altare degli dei. E l’olivo si lega così indissolubilmente al progredire della civiltà mediterranea. Durante il I sec. a.C. nelle terre romane del bacino mediterraneo si coltivano olivi e viti con tecniche d’avanguardia.
L’ulivo venne così piantato in Italia meridionale e in Africa settentrionale. Le coltivazioni già esistenti vennero invece ammodernate e ingrandite. Tra il 700 e il 600 a.C. l’albero si diffuse nella Cirenaica libica e in Francia meridionale. Anche i Fenici, particolarmente attivi nella coltivazione e trasformazione dell’ulivo selvatico, piantarono uliveti nei loro fondi introducendoli verso l’850 a.C. a Cartagine. Secondo Plinio (XV,8) l’Italia della metà del I sec. d.C. possedeva tanto ottimo olio e di poco prezzo da superare tutti gli altri paesi.
Il lavoro e la tecnica per la coltivazione, la raccolta e la produzione delle olive e dell’olio, lungo il corso del tempo, ha subito una lieve evoluzione, sino alle soglie della rivoluzione industriale e tecnologica. Uniche varianti sono state le situazioni storiche e i luoghi, comunque, attestati sulle coste dell’azzurro Mediterraneo.
Momenti decisivi, quali l’aratura, la potatura, la raccolta, si caricavano di comprensibili significati rituali e propiziatori legati alla fecondità della terra.
Su un anfora di Vulci, di provenienza attica del 520 a.C., viene rappresentata una raccolta di olive. Si notano tre ulivi: in quello centrale, due lavoranti colpiscono rami e fusto con lunghe verghe, sulla chioma un terzo giovane bacchia le olive con un bastone, a terra, in ginocchio, altri giovani raccolgono il prodotto in cesti.
Secondo M.T. Varrone , nel Rerum Rusticarum libri III le olive dovevano essere di massima brucate a mano utilizzando, se necessario una scala. Lo stesso Plinio fa notare i mali procurati agli alberi dalla bacchiatura e ricorda il vecchissimo ordine dato ai raccoglitori “Guardati di non scorticare e non bacchiare le olive”.
Ai tempi di Plinio passava un certo periodo tra la raccolta e la molitura al torchio (torcularium): questa avveniva in un locale ove si trovavano le macine (mola olearia o trapetum) e la pressa (torculum). Non era possibile evitare un periodo di giacenza di alcuni giorni nel magazzino (tabulatum). Se questo non era dannoso per le olive sane, certamente lo era per quelle infestate da insetti o ammaccature. Oggi passano al massimo 48 ore tra la raccolta e la molitura o macinatura e quindi torchiatura della pasta.
Anche anticamente i romani erano degli abili osservatori e dei profondi conoscitori dell’arte olearia, al punto da adottare delle denominazioni chiare ed efficaci: “Oleum ex albis ulivis” era l’olio di altissimo pregio ottenuto da olive di colore verde; “Oleum viride“, quello invece qualitativamente altrettanto valido, ricavato da olive appena invaiate e prossime perciò a una maturazione incipiente; “Oleum maturum“, quello ottenuto invece da olive nere e già mature, di qualità considerevolmente inferiore ai primi due oli; “Oleum caducum“, di qualità mediocre, quello che veniva estratto da olive raccolte da terra perché cadute dall’albero per maturazione avanzata; “Oleum cibarium“, infine, per indicare un prodotto di pessima qualità, ottenuto da olive aggredite da parassiti e destinato in parte all’alimentazione degli schiavi e in parte a usi diversi.
Oleum ex albis ulivis: altissimo pregio ottenuto da oliveverdi.
Oleum viride: ricavato da olive appena invaiate.
Oleum maturum: ottenuto da olive nere già mature.
Olei flos (fiore d’olio): di prima spremitura.
Oleum sequens: di seconda spremitura.
Oleum cibarium: olio ordinario.
Oleum caducum: qualità mediocre, da olive raccolte da terra per avanzata maturazione.
Oleum cibarium: pessima qualità da olive aggredite da parassiti.
Sin dall’età classica, vi erano due procedimenti per macinare e pressare le olive. Le olive venivano macinate a mano in piccoli mortai e vasi fittili come quelli rinvenuti nel deposito del palazzo di Phaitos a Creta e possiamo supporre che così avvenisse anche ad Haifa almeno dal V millennio a.C.. Schiacciate con pietre rotonde, le olive venivano poi torchiate da massi colonniformi che rotolavano sulla pasta. In seguito, venne utilizzato il mulino. Il mitico Aristeo, figlio di Cirene e Apollo, è ritenuto il leggendario inventore di questo strumento. Aristeo era considerato un semidio, pastore, nomade e sovrano della Sardegna ove introdusse l’apicoltura e la coltivazione degli ulivi. Plinio, distingue diversi tipi di macine e dà la preferenza alla mola, rispetto al trapetum ed al canalis et solea.
La mola olearia è composta da una base rotonda e fissa, nel centro è incastrato il braccio di una macina a ruota che gira intorno al suo asse. La macina è fissata all’asse in modo che la sommità sia mobile; ciò era molto importante affinché i noccioli delle olive non venissero schiacciati e, secondo Palladio, non danneggiassero l’olio. Durante gli scavi fatti nella cittadella di Canne della Battaglia in Puglia, teatro della vittoria di Annibale sui Romani, è stata rinvenuta una macina a ruota.
Un notevole progresso nella tecnica olearia fu l’utilizzo del torchio a vite in legno, secondo Plinio il torchio a vite sarebbe stato inventato e utilizzato per la prima volta dai Greci intorno al 50 a.C..
Sulle mense romane si fa distinzione fra gli oli sapidi della Sabina e quelli leggeri della Liguria, mentre gli oli pesanti di Spagna e d’Africa sono utilizzati soprattutto per l’illuminazione. Le legioni romane che conquistano l’Europa quando si insediano su un territorio per prima cosa vi piantano viti e olivi.
A partire dal tardo impero (IV sec. a.C.) la storia del bacino mediterraneo si avvia verso un lungo periodo di guerre e carestie; si produce poco e in regime autarchico e anche l’olivicoltura ristagna. Si dovrà attendere la ripresa dopo il Mille quando, soprattutto per opera delle comunità monastiche, si darà un nuovo impulso all’agricoltura, con la bonifica di terreni paludosi e la messa a dimora di nuove piante di vite e di olivo.
L’ulivo e l’olio dal Rinascimento ai giorni nostri
Ecco dunque l’olivo affacciarsi al secolo XIV da protagonista, raffigurato rivestito delle antiche simbologie nella splendida iconografia del tempo e il Rinascimento lo trova insieme alla vite, gran protagonista dell’agricoltura. Il governo mediceo a Firenze darà impulso all’olivicoltura concedendo gratuitamente grandiestensioni di terreno collinare a chi le coltivi e l’olio toscano è così già famoso nella penisola.
Il sec. XVIII è il secolo d’oro per l’olivicoltura nazionale: l’Italia risulta essere la produttrice del miglior olio che si trovi sul mercato europeo, tanto che durante questo secolo e nel successivo, si fanno sempre più estese le terre convertite all’olivicoltura, cui attinge non solo il settore alimentare, ma anche la nascente industria conserviera, quella dell’illuminazione, della saponificazione, e altre.
In questo periodo si notano ingenti investimenti di capitale nell’olivicoltura che si fa sempre più impresa trainante dell’economia dovuta anche all’ampliarsi del commercio verso paesi sprovvisti del famoso prodotto, molti dei quali lo impiegano anche nell’industria tessile.
Il secolo XX, con l’arrivo delle nuove tecnologie, ha visto notevolmente semplificato il lavoro di raccolta e di molitura, consentendo prezzi migliori ed una più rapida diffusione del prodotto.
Oggi l’olio di oliva è rimasto una pietra miliare nell’alimentazione mediterranea, guardato con sempre maggior rispetto dalla dietologia moderna.
Questa ci ha insegnato che usato con intelligenza, l’olio extravergine di oliva è il condimento sano per eccellenza.
I nostri antenati di questo ignoravano tutto, ma ne avevano fatto il condimento base della propria alimentazione, povera, sì, ma sana ed esaltata nei sapori e nei profumi dei prodotti della terra.
Sapori e profumi che assimilano oggi, come allora, le diverse cucine di tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo.